W. R. Bion
- La teoria delle funzioni
La teoria di Bion, psicoanalista inglese, parte dalla teorizzazione di M.Klein per svilupparla, creando un contributo molto originale riguardo allo sviluppo psichico.
Il termine “funzione” indica un’attività, compito, ruolo, finalità, esplicati da un oggetto, ad esempio un organo o un insieme di organi negli animali e nei vegetali. L’applicazione del termine in ambito psicologico risale alla scuola psicologica funzionalista fiorita negli Stati Uniti a cavallo tra Ottocento e Novecento.
I principali esponenti furono W. James, G.S. Hall, J. Cattell, J. Dewey, H. Carr, R.Woodworth etc.
Nella teorizzazione bioniana il termine “funzione” è utilizzato sia in senso matematico che filosofico e del linguaggio comune (D’Apruzzo, A., 1987).
In “Apprendere dall’esperienza” (1962b), Bion definisce il termine “funzione” intendendo “l’attività mentale propria di una certa quantità di fattori che operano in concordanza”.
Il “fattore” indicherebbe “l’attività mentale che, operando insieme ad altre, costituisce una funzione” (Bion W.R., 1962b, p. 20).
I fattori vengono dedotti non direttamente, ma attraverso l’osservazione delle funzioni.
Bion chiarisce questo discorso un po’ tautologico ricorrendo a degli esempi tratti dalla vita quotidiana.
In “Elementi della psicoanalisi” (1963), Bion ha poi chiarito il significato “matematico” del termine, affermando che la funzione “è una variabile in rapporto ad altre variabili, nei termini delle quali essa può essere espressa e dal valore delle quali dipende il suo valore” (Bion, 1963, p.17).
Si può notare che la preoccupazione costante in tutta l’opera di Bion, e nello stesso tempo il suo grande valore, è di cercare sempre degli elementi fondamentali a cui assegnare un valore fisso, costante.
Lo scopo di tali elementi sarebbe permettere, grazie alla loro associazione, di creare un linguaggio comune a tutte le teorie psicoanalitiche.
Ciò avviene ad esempio per la scrittura alfabetica, “nella quale lettere prive di significato possono essere combinate tra loro in modo da formare una parola dotata di significato” (Bion, 1963, p.13).
Questi elementi sono le “funzioni della personalità”. Tali funzioni, secondo Bion, sono inconoscibili di per sé, ma sono conoscibili le loro qualità primarie e secondarie (in senso kantiano).
Tra l’altro, osserva Bion, l’osservazione delle funzioni può permettere all’analista di ricavare i fattori che la costituiscono e colmare la distanza tra teoria e osservazione.
- La funzione alfa
Un esempio riportato da Bion per chiarire la sua concezione è la funzione denominata “funzione alfa”.
La funzione alfa è una funzione della personalità che opera sulle impressioni o percezioni sensoriali ed emotive.
Esse vengono così trasformate in elementi alfa, cioè immagini visive, o immagini corrispondenti a modelli olfattivi, uditivi, etc.
Questi elementi poi, possono essere nuovamente trasformati oppure immagazzinati o rimossi. Infine essi vengono utilizzati per formare i pensieri onirici e i pensieri inconsci della veglia.
La funzione alfa comprende dunque i processi di pensiero così come si manifestano nei loro prodotti finali: gesti, parole o formulazioni più complesse.
Bion definisce tutte le impressioni sensoriali ed emotive non trasformate “elementi beta”.
Tali elementi non sono idonei a pensare, sognare o ricordare, ma sono vissuti come cose in sé e vengono spesso evacuati attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva.
L’adeguato funzionamento della funzione alfa determina, secondo Bion, la formazione di una peculiare parte dell’apparato psichico, che è la “barriera di contatto”. Essa è costituita dall’insieme di elementi alfa che determinano il contatto o la separazione fra coscienza e inconscio. E’ una specie di membrana semipermeabile che permette l’alternanza dei diversi stati mentali (sonno o veglia) e di avere la nozione di passato e futuro (Grinberg L., Sor D., Tabak de Bianchedi E., 1972).
Se d’altro canto la funzione alfa risulta deteriorata, o non sufficientemente sviluppata, dice Bion, il soggetto presenterà gravi disturbi della capacità di pensare, poiché non riesce a formare gli elementi alfa.
In questo caso proliferano gli elementi beta che, al posto della barriera di contatto, determineranno la produzione di uno “schermo di elementi beta”.
Tale schermo non permette una differenziazione tra conscio e inconscio, sonno e veglia. Quello descritto è uno stato tipico di molti pazienti psicotici.
La funzione alfa è un processo che dipende strettamente dal rapporto che il bambino stabilisce con la madre.
Secondo Bion la capacità di rêverie della madre, infatti, consente al bambino di sviluppare la funzione alfa: per questo motivo la rêverie viene considerata da Bion come un “fattore” della funzione alfa.
- La Rêverie
Si può dire, in termini metaforici, che secondo Bion (1962) nel rapporto tra madre e bambino la madre “cuoce” gli “elementi beta”.
Gli elementi beta sono degli elementi sensoriali ed emotivi non trasformati o “digeriti” e quindi minacciosi per il bambino. La madre “accoglie” questi elementi e li rimanda al bambino in forma di “elementi alfa”, digeriti e dunque più accettabili.
Lo stesso processo avviene con il cibo, che una volta cotto perde le componenti indigeste o pericolose, poiché il calore le rende inattive.
Bion ha utilizzato la metafora del processo digestivo per chiarire la sua concezione del pensiero, della Rêverie e della “funzione alfa”.
Bion ipotizza un’analogia tra il latte fornito dal seno materno e l’esperienza emotiva di amore associata alla soddisfazione del bisogno di cibo. Il seno infatti dà al bambino, oltre al latte, “senso di sicurezza, calore, benessere, amore” (Bion, 1962, p. 67).
Generalizzando a tutte le esperienze emotive ciò che avviene nell’allattamento, Bion sostiene che “la componente psichica –l’amore, la sicurezza, l’angoscia- richiede, con quella somatica, un processo analogo alla digestione” (Bion, 1962, p.72).
Non è un caso che tradizionalmente, e in moltissime culture, siano state proprio le donne/madri a occuparsi di questo aspetto, della cucina, che rientra in un ruolo tipicamente femminile.
- Le “Esperienze nei gruppi”
Un grande contributo di Bion è senz’altro quello riguardante il funzionamento dei gruppi, sia quelli a finalità analitica che i gruppi di lavoro.
Bion intende il gruppo come un insieme, un tutto, per cui quando degli individui entrano a far parte di un gruppo i loro pensieri si uniscono per costituire una modalità di pensiero differente.
La prima volta che gli individui hanno a che fare con il gruppo si verifica una regressione a stadi precedenti dello sviluppo.
Nel gruppo emerge e si sviluppa un’esperienza sensoriale, affettiva, emotiva, prima ancora che cognitiva, condivisa da tutti i membri.
Secondo Bion questi aspetti caratterizzano quella che definisce la “mentalità di gruppo”.
Egli ipotizza infatti l’esistenza nel gruppo di emozioni intense e primitive, impulsi irrazionali e inconsci, opinioni, desideri, pensieri, fantasie, che costituiscono la “mentalità” di gruppo.
Tale mentalità, è definita anche “gruppo di base”, poiché è un aspetto primitivo del gruppo.
Essa influenza inevitabilmente la “cultura del gruppo”, ossia la struttura, l’organizzazione razionale, ostacolando il compito che il “gruppo di lavoro” deve realizzare.
Gli “assunti di base” costituiscono i contenuti della mentalità di base, ed entrano in combinazione da un individuo all’altro stimolando comportamenti complementari o “collusivi”.
Secondo Bion gli assunti di base sono tre: dipendenza, attacco-fuga e accoppiamento.
- L’assunto di base di dipendenza prevede che il gruppo sia riunito perché qualcuno (il capo), da cui il gruppo dipende in maniera assoluta, soddisfi tutti i bisogni e desideri del gruppo;
- L’assunto di base di attacco-fuga è la convinzione da parte del gruppo che esista un nemico da cui difendersi attraverso l’attacco (distruzione) o la fuga (evitamento);
- L’assunto di base di accoppiamento, infine, è l’attesa o la speranza di un evento o di un individuo non ancora nato, un Messia, che risolvano tutti i problemi del gruppo.
Nella teoria di Bion (1963) la “presa di contatto” con gli aspetti emotivi, sensoriali, affettivi, avviene attraverso i processi che egli definisce “congiunzione costante” e “fatto prescelto”.
La “congiunzione costante” indica per Bion la congiunzione tra “emozioni e sensazioni che si formano nella mente dell’individuo e che egli può cogliere dando loro un nome e un significato”(Pomar R.,1987).
Per Bion due o più elementi mentali (intellettivi, emotivi, o entrambi) si presentano sempre uniti tra loro. Questo aspetto dipende dalla realtà esterna al soggetto e caratterizza la congiunzione costante.
Ciò che Bion definisce “fatto scelto” è invece un processo più evoluto rispetto alla congiunzione costante: esso “qualifica un’operazione di pensiero, di organizzazione della realtà nella mente del pensatore”.
Per effetto del “fatto prescelto”, infatti, le emozioni e sensazioni confuse vengono catalizzate e riaggregate in modo da dare origine ad un nuovo ordine e aggregazione e ad una nuova congiunzione costante, una rappresentazione integrata.
Ciò è possibile grazie al funzionamento del modello di oscillazione PS = D tipico della mente, ipotizzato da Bion (1963).
Bion propone una rilettura della teoria di M. Klein riguardo il passaggio dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva che caratterizza lo sviluppo infantile.
Mentre la Klein indicava in questo passaggio le tappe evolutive dell’individuo verso il conseguimento della maturità, Bion indica con PS = D una modalità di funzionamento generale della mente.
Per Bion la capacità della psiche di individuare un collegamento o un “fattore ordinatore” nella massa di fenomeni slegati e frammentati della realtà determina la possibilità di cogliere una congiunzione costante.
Tale capacità è il processo di frammentazione integrazione (o sintesi) PS = D.
Perché una congiunzione costante possa essere conosciuta, non basta che essa venga percepita.
E’ necessario che ad essa sia attribuito un segno, cioè, secondo Bion, che la congiunzione sia “legata” e nominata. Il nome consente di parlare di qualcosa prima di conoscerne il significato.
- Trasformazione in “K” ed Evoluzione in “O”
In “Trasformazioni” (1965), Bion propone una teoria delle trasformazioni.
La trasformazione è intesa come un processo (Talfa) realizzato con una certa tecnica o a certe condizioni, che determina il passaggio da uno stato iniziale (“0”) a un prodotto finale (Tbeta).
Bion sottolinea l’importanza del mezzo in cui avviene tale trasformazione, che può essere il corpo, la mente, il mondo esterno.
Il concetto di “invarianza”, indica ciò che nel processo di trasformazione rimane inalterato e consente quindi di riconoscere le caratteristiche dello stato iniziale in quello finale.
Processi di trasformazione avvengono in molti campi e contesti, anche completamente diversi tra loro, dalla fisica alla biologia, alla geometria etc.
Per quanto concerne la situazione analitica, le associazioni del paziente, espresse verbalmente, sono delle “trasformazioni” di pensieri ed emozioni che, a loro volta, sono “trasformazioni” di fatti esperienziali, presenti o passati.
Prendendo spunto dalla geometria proiettiva Bion distingue poi tre modelli di trasformazioni nell’area mentale: trasformazioni a moto rigido, proiettive e in allucinosi.
Le trasformazioni “a moto rigido” sono quelle che implicano scarsa deformazione, mantenendo costanti certi significati e altre caratteristiche. Ad esempio le trasformazioni di pensieri in parole che li rappresentano secondo i codici che utilizza la maggioranza delle persone che parlano la stessa lingua.
Le trasformazioni “proiettive” avvengono attraverso i meccanismi di proiezione, dissociazione e identificazione proiettiva. In questi casi fatti molto lontani dalla seduta sono considerati dal paziente come parte di essa o della personalità dell’analista.
Infine le trasformazioni “in allucinosi” sono tipiche del funzionamento della personalità psicotica. Il prodotto finale di questo gruppo di trasformazioni può essere un’allucinazione. In altri casi l’analista non può neanche avere accesso al prodotto finale.
Utilizzando questi modelli, secondo Bion, l’analista può risalire, attraverso l’interpretazione del materiale fornito dal paziente in seduta, allo stato iniziale: ciò a cui il paziente si sta riferendo nell’ hic et nunc della relazione analitica.
E’ evidente che tale compito è più facile relativamente al primo tipo di trasformazioni rispetto agli altri due : nelle trasformazioni a moto rigido le invarianti sono più riconoscibili.
I tre tipi di trasformazione descritti sono in relazione con il “sapere riguardante O”, trasformazioni O -> K.
Per Bion il processo di “trasformazione in K” indica “Knowledge”, il conoscere qualche cosa, tutte le sfaccettature del processo conoscitivo.
Tale processo si configura come rapporto tra la tensione alla conoscenza e l’oggetto della conoscenza così come si offre all’individuo.
Il “legame K” come lo chiama Bion, corrisponde a un’emozione diffusa, un misto di amore-odio: ogni processo conoscitivo deve essere considerato come attraversato da questa corrente emotiva.
Il processo di “evoluzione in O” (K->O) indica invece il divenire qualche cosa.
Con “O” Bion intende l’ignoto, la verità, la divinità che comprende in sé tutte le distinzioni ancora non sviluppate.
Il punto fondamentale è il passaggio, l’evoluzione dal conoscere all’essere ciò che è reale.
Ciò corrisponde, per Bion, al passaggio “dall’apprendimento alla crescita”: esso non è solo l’effetto del pensiero che conosce, bensì anche dell’evolversi della realtà stessa.
L’evoluzione in “O” corrisponde al processo che determina lo sviluppo di fatti mentali nuovi. Le interpretazioni responsabili del passaggio dal conoscere al divenire tale realtà , sperimentarla su di sé, sono temute, ma sono indispensabili per la crescita.
Gli elementi indifferenziati, caricati affettivamente, in quanto echeggianti una dimensione profonda, sconosciuta, inconscia, sono particolarmente importanti e necessari alle finalità del rapporto terapeutico e quindi alla maturazione della personalità.
Le trasformazioni in “O” possono avere anche carattere distruttivo.
Esse infatti vengono definite anche “cambiamento catastrofico” da Bion (1977), in quanto possono essere sperimentate come sconvolgenti e drammatiche dal paziente.
E’ inevitabile dunque che tali trasformazioni evochino delle resistenze, associate alla paura suscitata da qualsiasi situazione sia fonte di sconvolgimento e quindi di sofferenza.
In questo caso il paziente secondo Bion è timoroso di cambiare: la paura lo fa sentire come se si trovasse sull’orlo di un precipizio o di una catastrofe.
(Tratto da "La funzione mimetica nel gruppo" (2002) di Loredana Scalini)